Serbia hardcore
(By Dušan Veličković)


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Author | Dušan Veličković |
Veličković ritorna spesso sul tema amaro della mancata libertà di parola e di stampa, la più preziosa di tutte le libertà, quella che può denunciare l’abolizione di tutte le altre nonché i soprusi e le ingiustizie. Che può gridare forte la verità o mettere le verità a confronto. A Belgrado si è tornati a leggere tra le righe, “come ai tempi del totalitarismo morbido di Tito”. “La libertà è di nuovo un granello di polvere tra le righe”. Ogni eroismo è inutile, anche quello più sottotono, come il cercare di sottrarsi di Ćuruvija. A distanza di tempo Veličković verrà a sapere come l’ultimo giorno dell’amico giornalista sia stato filmato, fotografato, registrato e archiviato dalla polizia segreta, come lui stesso appaia, quindi, in quella documentazione: per anni il paese è stato una grande prigione in cui gli individui erano oggetti di cui era lecito disporre. Sorvegliandoli, documentandoli, liquidandoli.
Ma - e questo è un quesito assillante, che si ripresenta ogniqualvolta un regime dittatoriale trascina un intero paese nella sua politica mortale - esiste una responsabilità collettiva oltre ad una colpevolezza individuale? Perché anche se durante il processo a Milošević all’Aja è stato detto che “Questo non è un processo al popolo serbo”, sta di fatto che l’ex presidente ha avuto il sostegno popolare e non è possibile pensare che il popolo serbo sia del tutto innocente della tragedia dei balcani.
Il giornalista che è in Veličković gli suggerisce quando è necessario illuminare la scena, alleviando il peso del dramma con un pizzico di umorismo bellico: quando tutto scarseggia, che cosa si può vendere per acquistare beni di prima necessità? verrà fuori che non si può vendere nulla: la macchina no, perché può servire per fuggire; quadri no, perché vengono valutati poco, perché sono dei regali, perché ci si è affezionati; la bicicletta no, perché con che cosa ci si sposta dato che scarseggia la benzina? Mutatis mutandis: lo scrittore ricorda un pianoforte visto in una casa di campagna vicino a Vienna. Nessuno era capace di suonarlo. Era stato ottenuto in cambio di un chilo di burro nel 1945.
Eppure, non c’è un mondo al di fuori di Belgrado (non c’è alcun mondo al di fuori delle mura di Verona…, scriveva Shakespeare), “anche per me Belgrado è un vizio a cui non riesco a rinunciare”. E scriverne è un esercizio di autoterapia, l’unico modo possibile per ‘accettare’ un’altra morte, di un altro amico: il premier Zoran Djindjić, simbolo della nuova Serbia democratica, fu assassinato il 12 marzo 2003 davanti al palazzo del Governo. Il Washington Post, nel pubblicare l’articolo di Veličković, aveva alterato il testo originale che suggeriva di chiedere a Milošević chi fossero gli assassini. Censura nella libera America?”